«De Europa»: per capire e costruire l'integrazione europea
L’Europe se construit. C’est une grande espérance. Elle ne se réalisera que si elle tient compte de l’histoire: une Europe sans histoire serait orpheline et malheureuse. Car aujourd’hui vient d’hier, et demain sort du passé. Un passé qui ne doit pas paralyser le présent, mais l’aider à être différent dans la fidélité, et nouveau dans le progrès. Notre Europe, entre Atlantique, Asie et Afrique, existe depuis très longtemps en effet, dessinée par la géographie, modelée par l’histoire, depuis que les Grecs lui ont donné son nom, toujours repris depuis. L’avenir doit s’appuyer sur ces héritages qui, depuis l’Antiquité, voir la préhistoire, ont fait de l’Europe un monde d’une exceptionnelle richesse, d’un extraordinaire créativité dans son unité et sa diversité.
Jacque Le Goff, 1993
Perché una nuova rivista? Il rischio del declino dell’Unione Europea
Nel panorama editoriale internazionale non mancano certo le riviste sull’Europa. Perché allora un nuovo giornale?
Innanzitutto De Europa nasce all’interno della Cattedra Jean Monnet attivata presso l’Università di Torino, nel cui programma, tra le varie iniziative previste, ho indicato il proposito di pubblicare un giornale sull’Europa; la rivista esce grazie a questo finanziamento. La motivazione fondamentale di una nuova rivista sull’Europa riguarda lo stato attuale dell’integrazione europea. Tale stato, problematico e dall’evoluzione incerta, richiede uno sforzo culturale per ridefinire e rilanciare con forza le ragioni dell’unificazione. L’Europa sta attraversando una lunga crisi, non solo economica e migratoria, ma soprattutto esistenziale che investe la natura stessa dell’Unione Europea (UE), il suo ubi consistam, le sue finalità.
Questa crisi si manifesta in maniera eclatante nella diffusione dei movimenti euroscettici e nazionalisti, che in taluni casi arrivano a reclamare l’uscita dalla moneta unica, se non dalla stessa UE. Nei suoi quasi settant’anni di storia l’UE si è molto rafforzata, senza mai raggiungere tuttavia il punto di non ritorno; ma mai come ora ha dovuto affrontare difficoltà e contestazioni tali da mettere a rischio la sua stessa esistenza e i risultati conseguiti con l’integrazione (in particolare, la pace, la democrazia e il benessere). Il drammatico flusso di immigrati ha messo in discussione il principio della libera circolazione delle persone all’interno dell’UE, una delle quattro libertà di circolazione garantite dai trattati, e ha generato gravi tensioni politiche e sociali; la richiesta dell’ex ministro tedesco delle finanze di escludere la Grecia dall’euro e la volontà espressa da vari leader euroscettici di far uscire il proprio paese dalla moneta unica hanno compromesso il principio dell’indissolubilità dell’unione monetaria, già minacciata dalla crescita degli squilibri economici, sociali e territoriali; la Brexit ha minato l’idea dell’irreversibilità dell’appartenenza all’UE; le vicende internazionali hanno confermato, se mai ce ne fosse stato bisogno, la debolezza della politica estera dell’UE, il suo scarso peso sulla scena mondiale, la sua vulnerabilità di fronte alle minacce globali alla sicurezza; il terrorismo ha alimentato la paura dell’altro, del diverso e favorito la reazione nazionalistica e xenofoba di chiusura verso l’esterno.
Ne è conseguito un grave indebolimento dell’Unione Europea, il declino della sua attrattività e un mutamento dell’atteggiamento dell’opinione pubblica verso l’integrazione. Da un consenso piuttosto esteso, anche se generico, poco informato e scarsamente motivato (il cosiddetto “consenso permissivo” tipico dei primi decenni dell’integrazione, un europeismo tutto sommato diffuso ma passivo), si è passati a una forma di disaffezione che talora diventa rifiuto dell’integrazione. La ricomparsa del nazionalismo e l’aspirazione a ripristinare la piena sovranità nazionale, caldeggiati dalla retorica populista, fanno intravedere il sogno del ritorno a una mitica età dell’oro di Stati nazionali autosufficienti, supposti in grado di soddisfare i bisogni dei cittadini e di continuare a garantire un esteso sistema di sicurezza sociale, ridimensionato negli ultimi anni, secondo la propaganda populista, dalle politiche di rigore imposte da una casta tecnocratica radicata nell’UE. Effetto di questo atteggiamento è la pretesa di ridurre i poteri dell’Unione, di rinazionalizzare una parte delle sue politiche, di riappropriarsi della sovranità ceduta all’Europa.
La cultura della Stato nazionale: un atavismo
Ciò che ispira le posizioni eurofobiche e nazionaliste, indipendentemente dalla causa specifica che le scatena (la crisi economica, la disoccupazione, il terrorismo, l’immigrazione, la presunta minaccia all’identità nazionale ecc.) è un elemento di natura culturale che non si trova fuori di noi o nei problemi da risolvere, ma dentro di noi, nelle categorie concettuali che impieghiamo per leggere il mondo esterno, per interpretarlo e cercare di modificarlo. Questo elemento è un atavismo, un’eredità del passato, un residuo della cultura del XIX secolo e della prima metà del XX che ha portato alle due guerre mondiali e alla crisi dell’Europa: il mito dello Stato nazionale sovrano, autosufficiente e bastevole a sé stesso. Dalla nascita dello Stato-nazione nel corso dell’Ottocento, siamo abituati a considerare i problemi politici, economici, sociali come problemi nazionali, guardiamo la realtà dal punto di vista della nostra nazione, considerata un punto fisso intorno al quale ruotano tutti gli altri avvenimenti (Morelli 2018 : 47-50).
Emery Reves così denunciava già nel 1945 l’inadeguatezza di tale metodo di analisi:
Nothing can distort the true picture of conditions and events in this world more than to regard one's own country as the center of the universe, and to view all things solely in their relationship to this fixed point. It is inevitable that such a method of observation should create an entirely false perspective. Yet this is the only method admitted and used by the seventy or eighty national governments of our world, by our legislators and diplomats, by our press and radio. All the conclusions, principles and policies of the peoples are necessarily drawn from the warped picture of the world obtained by so primitive a method of observation. Within such a contorted system of assumed fixed points, it is easy to demonstrate that the view taken from each point corresponds to reality. If we admit and apply this method, the viewpoint of every single nation appears indisputably correct and wholly justified. But we arrive at a hopelessly confused and grotesque over-all picture of the world … And the citizens of every country will be at all times convinced - and rightly so - of the infallibility of their views and the objectivity of their conclusions. It is surely obvious that agreement, or common understanding, between different nations, basing their relations on such a primitive method of judgment, is an absolute impossibility. A picture of the world pieced together like a mosaic from its various national components is a picture that never and under no circumstances can have any relation to reality … The world and history cannot be as they appear to the different nations, unless we disavow objectivity, reason and scientific methods of research … our inherited method of observation in political and social matters is childishly primitive, hopelessly inadequate and thoroughly wrong. If we want to try to create at least the beginning of orderly relations between nations, we must try to arrive at a more scientific, more objective method of observation, without which we shall never be able to see social and political problems as they really are, nor to perceive their incidence. And without a correct diagnosis of the disease, there is no hope for a cure … For many centuries such an approach was unchallenged and unchallengeable. It served to solve current problems in a satisfactory way and the existing methods of production, distribution, of communications and of interchange among the nations did not necessitate nor justify the formulation and acceptance of a different outlook. But the scientific and technological developments achieved by the industrial revolution in one century have brought about in our political outlook and in our approach to political and social phenomena a change as inevitable and imperative as the Renaissance brought about in our philosophical outlook.
La conclusione cui Reves arrivava è lapidaria:
Our political and social conceptions are Ptolemaic. The world in which we live is Copernican … There is not the slightest hope that we can possibly solve any of the vital problems of our generation until we rise above dogmatic nation-centric conceptions and realize that, in order to understand the political, economic and social problems of this highly integrated and industrialized world, we have to shift our standpoint and see all the nations and national matters in motion, in their interrelated functions … without any fixed points created by our own imagination for our own convenience (Reves 1945 : 22-23, 27, 29).
Ciò non significa ritenere inutile lo Stato nazionale, che svolge ancora funzioni indispensabili per il benessere e la sicurezza dei cittadini, benché parte dei suoi poteri siano stati trasferiti verso l’alto (alle organizzazioni internazionali e regionali) e verso il basso (agli enti regionali e locali grazie al decentramento). Significa superare la cultura dello Stato nazionale, cioè la convinzione che tutti i problemi siano risolvibili al suo interno, ignorando le interrelazioni sempre più strette che si sono create con gli altri paesi a seguito dell’evoluzione economica, sociale, culturale, tecnologica. Non viviamo più in un mondo di Stati sovrani indipendenti e autosufficienti. La globalizzazione (nelle sue molteplici forme: politiche, economiche, finanziarie, sociali, culturali, giuridiche, ecologiche, sanitarie, linguistiche ecc.), le integrazioni regionali, le organizzazioni internazionali hanno limitato la sovranità degli Stati. Il mondo è diventato interdipendente, correlato, globalizzato; è un villaggio globale. In un mondo globale occorre prendere atto dell’interdipendenza e ammettere che gli Stati da soli non sono più in grado di risolvere quei problemi che travalicano i loro confini e che hanno assunto dimensioni internazionali. Bisogna abbandonare le categorie naziocentriche ottocentesche che distorcono la visione della realtà e impiegare paradigmi concettuali globali che permettano di cogliere le interdipendenze che legano gli Stati e quindi di affrontare le sfide contemporanee con strumenti adeguati.
Scriveva Luigi Einaudi nel 1918 contro il dogma della sovranità assoluta:
Bisogna distruggere e bandire per sempre il dogma della sovranità perfetta perché esso è falso, irreale. La verità è il vincolo, non la sovranità degli Stati. La verità è l’interdipendenza dei popoli liberi, non la loro indipendenza assoluta. Per mille segni manifestasi la verità che i popoli sono gli uni dagli altri dipendenti, che essi non sono sovrani assoluti e arbitri, senza limite, delle proprie sorti, che essi non possono far prevalere la loro volontà senza riguardo alla volontà degli altri. Alla verità dell’idea nazionale: “noi apparteniamo a noi stessi” bisogna accompagnare la verità della comunanza delle nazioni: “noi apparteniamo anche agli altri” ... Lo Stato isolato e sovrano perché bastevole a se stesso è una finzione dell’immaginazione; non può essere una realtà. Come l’individuo isolato non visse mai, salvoché nei quadri idillici di una poetica età dell’oro, come l’uomo primitivo buono e pervertito dalla società fu un parto della fantasia di Rousseau; mentre invece vivono soltanto uomini uniti in società con altri uomini; e soltanto l’uomo legato con vincoli strettissimi agli uomini può aspirare a una vita veramente umana, così non esistono Stati perfettamente sovrani, ma unicamente Stati servi gli uni degli altri; uguali e indipendenti perché consapevoli che la loro vita medesima, che il loro perfezionamento sarebbe impossibile se essi non fossero pronti a prestarsi l’un l’altro servigio (Einaudi 1986 : 32-33).
Il richiamo alla sovranità nazionale è un’illusione che deriva da un’impostazione culturale dei secoli passati. Sovranità significa capacità di prendere decisioni autonomamente e di mettere in pratica quanto deciso senza condizionamenti esterni. Quale paese oggi è così sovrano da essere in grado di decidere e di agire senza condizionamenti e senza tenere conto delle interdipendenze con le altre nazioni? La cocciuta rivendicazione della sovranità e il misconoscimento delle interrelazioni che legano ciascun paese al resto del mondo non permettono di acquisire autonomia decisionale e maggiore indipendenza, ma si traducono in incapacità di agire o in un agire sterile e quindi in ulteriore perdita di sovranità. L’unico modo per recuperare la sovranità nazionale perduta è la costruzione di una condivisa sovranità europea.
Per orientarci nel mondo contemporaneo è necessaria una sorta di “rivoluzione copernicana” nel nostro modo di pensare e di agire, adottando un approccio globale al posto di quello naziocentrico. Costruire muri per impedire le migrazioni corrisponde a un modo di pensare e di agire tolemaico e non risolve il problema di esseri umani in fuga da guerra, fame, sottosviluppo e in cerca di migliori condizioni di vita. Affrontare la questione delle migrazioni a livello europeo, con risorse europee e con strumenti sovrannazionali è un modo di pensare e di agire copernicano e rappresenta la sola maniera di risolverlo in una prospettiva democratica e solidale. Rispondere alla minaccia del terrorismo a livello nazionale è un modo di pensare tolemaico e il risultato è fallimentare; rispondere a livello europeo, creare una effettiva intelligence europea, è un modo di pensare copernicano che aiuta a contrastare più efficacemente la minaccia. La criminalità è organizzata a livello internazionale; contrastarla a livello nazionale è inefficace.
Il mercato è globale; la politica, che dovrebbe regolarlo, è rimasta nazionale, ancora sedotta dal mito della sovranità nazionale, e quindi inadeguata a governarlo. La globalizzazione, anziché una risorsa per tutti, si risolve in un vantaggio per i ricchi, accrescendo le disuguaglianze. La mancanza di Europa, cioè di istituzioni sovrannazionali dotate di poteri e di risorse adeguate, impedisce di ricomporre a livello continentale l’equilibrio tra democrazia e mercato messo in crisi a livello nazionale dalla dimensione internazionale raggiunta dall’economia.
Per decenni il processo di unificazione si è fondato sulla convenienza economica; l’integrazione aveva obiettivi limitati (il mercato comune), non imponeva ai cittadini costi e sacrifici, la liberalizzazione commerciale produceva effetti positivi. Dal trattato di Maastricht in poi, cioè dalla creazione della moneta unica, la situazione è cambiata. I sacrifici richiesti per partecipare all’unione monetaria, poi la crisi economica, la politica del rigore hanno fatto venir meno nell’opinione pubblica la percezione della convenienza a far parte dell’Europa. Per i cittadini dei paesi deboli i sacrifici imposti per rimanere nell’euro sono apparsi insopportabili e per quelli dei paesi forti inaccettabile il trasferimento di risorse a favore dei primi. È così venuto meno uno dei principi fondamentali del vivere insieme: il principio della solidarietà, previsto fin dal 1957 nel preambolo del trattato CEE e ribadito dal trattato sull’Unione Europea del 20091.
La convenienza economica rimane ovviamente un elemento fondamentale dell’integrazione, ma non è più percepita da un’opinione pubblica che vede nell’Europa non un vantaggio, ma un costo insopportabile; quindi non è più sufficiente a tenere insieme gli europei. Occorre sviluppare nell’opinione pubblica la consapevolezza di “essere europei”, un’adesione ragionata e convinta all’ideale, e alla necessità, dello stare insieme. Nei decenni passati si è fatta l’Europa senza gli europei, non c’è stato alcun fenomeno di europeizzazione dell’opinione pubblica, ad eccezione delle élite, paragonabile al processo di nazionalizzazione delle masse che si è verificato nel corso dell’Ottocento (Majone 2010 : 604, 608) e che ha integrato i popoli europei nei rispettivi Stati nazionali. Paradigmatico è il fatto che i cittadini della Germania occidentale hanno finanziato la ricostruzione economica della Germania orientale, nella convinzione evidentemente di condividere la stessa identità, di essere tutti tedeschi. Il sentimento identitario non è scattato invece nei confronti della Grecia, e degli altri paesi in difficoltà, benché il trattato di Maastricht abbia istituito la cittadinanza europea. La condivisione dell’identità europea, il sentirsi europei, è un’attitudine ancora poco diffusa nel continente.
Così come non è ancora stato creato uno spazio pubblico europeo; l’informazione è rimasta nazionale e continua a essere veicolata attraverso canali nazionali.
Le tematiche di De Europa
Di fronte al risorgere del nazionalismo, che sembrava sconfitto dopo la seconda guerra mondiale, e dell’euroscetticismo, appare evidente la necessità di allargare la ricerca scientifica sull’Europa mirata a evidenziare le ragioni della sua integrazione: l’Europa unita è solo una esigenza economica determinata dall’allargamento del mercato o è sorretta anche da una comune identità e dalla condivisione di comuni valori? In sostanza, l’Europa è solo un mercato o è anche una koinè culturale? Esiste una memoria collettiva europea o esistono solo memorie nazionali? Sono identificabili luoghi della memoria europei? Se la risposta a tali domande è affermativa, e l’orientamento della rivista è in questo senso, seppure nella consapevolezza della problematicità del tema, De Europa intende rintracciare le manifestazioni degli elementi comuni all’Europa, nei secoli passati come nel presente, sottolineare l’esistenza di un’identità europea, peraltro espressa nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE, e di valori comuni ai popoli europei, elencati nell’articolo 2 del Tratto sull’Unione, approvati entrambi all’unanimità dai paesi membri. Al di là delle diversità, che rappresentano la ricchezza dell’Europa e che vanno salvaguardate, il continente manifesta una sostanziale unità che affonda le radici nei secoli passati. I movimenti culturali (il rinascimento, l’illuminismo, il romanticismo), le ideologie politiche (il liberalismo, la democrazia, il socialismo, lo stesso nazionalismo), le correnti artistiche (il romanico, il gotico, il barocco), al di là delle declinazioni nazionali, sono stati eventi europei e hanno coinvolto tutto il continente. I popoli europei hanno radici comuni, a partire dalla cultura classica e dal cristianesimo, e l’aspirazione all’unità e i relativi progetti di unione datano dal Medioevo. Il titolo del giornale, De Europa, non casualmente è espresso in latino, un idioma che per secoli è stata la lingua comune della cultura europea.
Il giornale si propone dunque come tema l’Europa; raccontare l’Europa non solo di Bruxelles, ma l’Europa nelle sue diverse manifestazioni nel tempo e nello spazio. Un tema smisurato e ambizioso. Il filo conduttore è quello di sottolineare i caratteri comuni dell’Europa, che sono alla base del processo di unificazione, di tratteggiare, in maniera critica e problematica, la presenza di un’identità europea e di valori e radici comuni, di rafforzarne la consapevolezza da parte dei popoli del vecchio continente, di rimarcare la necessità dell’unificazione per rispondere efficacemente alle sfide del mondo attuale, di contrastare l’avanzata dell’euroscetticismo e dei nazionalismi attraverso la disseminazione delle ricerche sull’Europa.
A questo scopo il giornale non è monodisciplinare, bensì multidisciplinare e ospita contributi provenienti da diverse discipline, in modo da abbracciare la complessità e la ricchezza dell’Europa. Tale carattere multidisciplinare è rispecchiato nella composizione del Comitato scientifico e del Comitato di redazione. Il focus è l’Europa e il valore della sua unificazione, l’obiettivo quello di individuare e far emergere l’identità europea, i valori condivisi, la necessità di trovare soluzioni comuni per affrontare le sfide poste dalla globalizzazione.
Il giornale pubblica saggi che riguardano specificamente:
- la formazione dell’idea di Europa e la sua evoluzione nel tempo, i mutamenti della sua estensione e del suo contenuto fino al problema, tuttora dibattuto, dell’esistenza di una identità europea;
- le multiformi caratteristiche della Civilisation européenne, risultato degli scambi e delle contaminazioni della civiltà europea con quelle non europee: la politica, l’economia, il diritto, le religioni, la cultura, le città, il paesaggio, l’ambiente, i luoghi della memoria, i contributi che l’Europa ha dato all’umanità e quelli che ha ricevuto dalle civiltà extra-europee;
- la nascita e l’evoluzione dell’integrazione europea, il suo sistema istituzionale e le sue politiche;
- le relazioni dell’UE con il resto del mondo e le organizzazioni internazionali e regionali e il tema, particolarmente delicato e sensibile, se l’Unione possa essere un modello per le altre forme di integrazione regionale che si sono sviluppate nel mondo; il rapporto quindi fra Unione Europea, regionalismo, globalismo e il ruolo che l’Unione potrebbe ricoprire a livello internazionale senza degenerare in nuove forme di eurocentrismo, ma proponendosi come potenza gentile stabilizzatrice e pacificatrice e artefice di un innovativo rapporto non coloniale con i paesi in via di sviluppo;
- l’analisi del complesso fenomeno dell’euroscetticismo, distinguendo il rifiuto pregiudiziale del progetto d’integrazione e la rivendicazione del ripristino della sovranità nazionale dalle critiche all’attuale configurazione dell’UE e alle sue politiche volte a creare un’Unione più solidale e democratica e a modificare le sue politiche;
- la sfera pubblica europea ed il processo di europeizzazione della cittadinanza;
- le narrazioni e i discorsi d'Europa, la creazione di euroletti e la contaminazione delle lingue nazionali
I contributi sono pubblicati in una delle quattro lingue del giornale: italiano, inglese, francese, spagnolo. Il giornale pubblicherà due numeri all’anno, che potranno essere integrati da eventuali numeri speciali. Si alterneranno numeri tematici e numeri aperti.
Conclusioni
Come ha scritto Jacques Le Goff nella Prefazione a ciascun libro della collana Fare l’Europa2, il futuro si costruisce sull’eredità del passato. L’Europa si costruisce partendo dalla sua storia, conoscendo le sue realizzazioni e le sue conquiste, senza dimenticare le contraddizioni e i conflitti che ha attraversato nel suo cammino verso l’unità:
Dans ses efforts vers l’unité, le continent a vécu des dissensions, des conflits, des divisions, des contradictions internes. Cette collection ne les cachera pas : l’engagement dans l’entreprise européenne doit s’effectuer dans la connaissance du passé entier, et dans la perspective de l’avenir … Et notre ambition est d’apporter des éléments de réponse à la grande question de ceux qui font et feront l’Europe, et à ceux qui dans le monde s’y intéressent: «Qui sommes-nous? D’où venons-nous? Où allons-nous?».
Umberto Morelli
Direttore
Maggio 2018
De Europa. European and Global Studies Journal
Bibliografia
Junius, pseudonimo di Luigi Einaudi, (1918), “Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle Nazioni”, Corriere della Sera, a. 43, n. 362, 28 dicembre 1918, p. 2; ristampato nel 1986 in Luigi Einaudi, La guerra e l’unità europea, Bologna: il Mulino, 29-36.
Majone Giandomenico (2010). “Integrazione europea, tecnocrazia e deficit democratico”. Rassegna italiana di sociologia, n. 4, 599-619.
Morelli Umberto (2018). “Euroscepticism, the highest stage of nationalism”. In: Guido Levi, Daniela Preda (a cura di). Euroscepticisms. Resistance and opposition to the European Community/European Union. Bologna: il Mulino, 47-60.
Reves Emery (1945) The anatomy of peace, New York and London: Harper & Brothers Publishers.
1 Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea, Preambolo: «Rafforzare l’unità delle loro economie e assicurarne lo sviluppo armonioso riducendo le disparità fra le differenti regioni e il ritardo di quelle meno favorite». Trattato sull’Unione Europea, art. 3: «Essa promuove la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri».
2La collana, diretta da Jacques Le Goff, è nata nel 1993 ed è stata pubblicata contemporaneamente da cinque editori europei (Beck Verlag, Blackwell, Editorial Crítica, Laterza, Éditions du Seuil).